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Viaggio in Croazia

di Marco Bini


Quello che segue è un "collage" di diversi messaggi che Marco ha postato sull'argomento. Manca qualcosa, il racconto non sempre è lineare, ma non ho voluto modificare niente. (NdR)

Il primo giorno abbiamo cercato di andare a Petrinja, l'unico posto raggiungibile dove si combattesse. Eravamo io, Giulio, Cesare (non è una battuta) ed un collega di Roma, tale Cristiano Laruffa della Agf, che ci metteva la macchina, tanto l'aveva presa a nolo a Trieste. Petrinja era (lo sarebbe ancora se ne fosse rimasta abbastanza) ad una quarantina di km da Zagabria, dove peraltro imperava una noia mortale.

Il campanile della città era l'unico riferimento visibile per l'artiglieria, ragion per cui era ogni giorno più corto. Dalle foto del campanile puoi stabilire approssimativamente la data in cui è stata scattata.

Cristiano ci aveva messi in paranoia con le sue storie di cecchini appostati dietro ogni singola pannocchia per decinaia e decinaia di kilometri di campi di grano, forse centine.

La realtà è che non avevi idea di che diavolo succedesse se non andavi a vedere di persona. In queste situazioni le voci crescono incontrollate, alimentate spesso dai giornalisti italiani che cercano una giustificazione per il loro non voler lasciare l'albergo.

La paura dei cecchini è stata una costante per tutto il viaggio, intendo quello vero, fino ad Osijek, che avrebbe dovuto portarci fino a Vukovar (ancora non era caduta), ma sono stati l'unica cosa che non abbiamo trovato.

Primo posto di blocco croato, cortese avvertimento (in croato, chissà che ha detto) che doveva essere del tenore "fate-come-volete-ma-io-ve-l'avevo-detto-tanto-la-pelle-è-vostra-oh!". Cristiano, che alla pelle ci deve tenere più di noi, ferma la macchina e decide che di lì non si muove; noi tre ci incamminiamo a piedi verso la città che non sappiamo esattamente quanto disti.

Dopo un po' Cristiano ci ripensa e ci raggiunge. Proseguiamo tutti in auto fino al secondo posto di blocco, un po' più convincente, con un crocefisso di legno che Cesare fotografa per scaramanzia.

Nessuno ti impedisce di andare avanti, ma la presenza di gruppi di giornalisti fermi fa riflettere. Riflettiamo, ma non ci è di molta utilità.

Tra i brontolii dei colpi di mortaio che ogni tanto si sentono come tuoni in lontananza, attraversiamo spensierati una stradina asfaltata tra i campi.

Non ci è passato minimamente per la testa che tiravano coi mortai solo quando un osservatore vedeva qualcosa muoversi su quella maledetta stradina prima del ponte sul Kupa. Passiamo.

Un altro colpo, più vicino degli altri, ci fa stupidamente sorridere. "Hey, guarda là!" fa qualcuno di noi indicando a sinistra un filo di fumo che si va spegnendo tra la strada ed una casa.

"Ferma un attimo, Cristiano, che voglio fare una ripresa" gli fa Giulio, e quel fesso del romano si ferma davvero. Tutti scendiamo a sgranchirci le gambe, gingillandoci per dar modo al mortaista di ricaricare con comodo.

All'osservatore non deve essere sembrato vero. "Attento!" o qualcosa del genere mi viene urlato da non mi ricordo chi (Cesare?) che vede il colpo arrivare dalle mie spalle. Prima che io abbia il tempo di chiedere "a che cosa?" mi vedo scavalcare dall'obice che fischia avvitandosi nell'aria e scoppia a poca distanza da noi ed un campagnolo che non lascia nemmeno cadere il secchio che portava.

A questo punto, persino a noi era chiaro che stavano lavorando di cesello ed il terzo colpo ci avrebbe presi in pieno. "Via! Via!", rapida sgommata in retro marcia e per quel giorno a Petrinja non ci siamo andati.

Poi mi hanno detto che doveva trattarsi di un mortaio da 120, che fa schegge ed uccide nel raggio di centinaia di metri, solo che infossandosi nel terreno appena dissodato ha fatto schegge verso l'alto. Paradossalmente siamo stati salvati dalla troppa elevata potenza dell'arma, un mortaio più piccolo ti uccide comunque a quella distanza, ma lo puoi dirigere con molta più precisione.

Se c'è una cosa che mi irrita in questo tipo di guerra è che chi ti ammazza non solo non ti conosce, ma non ti vede nemmeno. E' quasi come ricevere una telefonata di notte da uno sconosciuto che riattacca. "Pronto? Pronto?" "Click." "Attento!" "A ch..." -BOOM!-

[...]

Mi trovavo in Croazia con due amici a Brest, un ridente paesino circondato da sghignazzanti colline, ad intervistare Sinisa Dvorsky, comandante delle "Zebre", un corpo speciale anti guerriglia.

Sulle colline stavano appostati i carri federali, che non potevano avanzare perchè le "Zebre" avevano minato il ponte con 300 kg di esplosivo.

Durante la video intervista a "Mastro Lindo" (gli assomigliava, credetemi), qualcuno ha avuto il cattivo gusto di interromperci con una bordata di artiglieria pesante preannunciata da uno strano fischio, un rumore che non dimenticherò mai.

In pochi secondi una ventina di uomini hanno riempito una stanza della cascina, passando tutti assieme per la porta e contraddicendo così la legge dell'impenetrabilità dei corpi. Ovviamente io sono stato l'ultimo, imbranato come sempre.

Come sono entrato, qualcuno ha chiuso la porta di legno, e tra i calcinacci e i colpi delle schegge che rimbalzavano sulle pareti, abbiamo avuto l'irragionevole sensazione di essere al sicuro, neanche fossimo in un bunker. Eravamo tutti seduti od accucciati, e quello che veramente mi ha preoccupato è stato vedere "Mastro Lindo" con le mani sull'elmetto battere le ginocchia. "Oh oh, ma allora stavolta è dura anche per loro. Ma dove cazzo mi sono andato a cacciare?".

Ma questo l'ho già detto.

[...]

Ah sì, il belga. Il tutto è durato pochi secondi, nelle riprese si vedono i soldati, prima silenziosi, poi ridacchiare e passarsi la birra, e me armeggiare con la staffa del flash.

Poi si apre la porta, ed entra un cameramen belga, visibilmente provato, con la betacam in spalla. Le sue prime parole sono state: "Oh, shit!".

Se non l'avessi visto non avrei creduto possibile che qualcuno potesse sopravvivere lì fuori. Appena usciti, avremmo voluto fare delle riprese, ma ci hanno fatti allontanare di corsa. In effetti c'era il rischio che un osservatore riferisse che c'era ancora qualcosa di vivo sul bersaglio.

Corriamo tra la stalla in fiamme e la casa dei vecchi colpita in pieno (ci hanno mancati di 10, 20 metri) e gli diamo un passaggio con la nostra macchina. Il belga è per metà libanese, ma durante il tragitto bestemmia in italiano.

Gli chiediamo se è stato peggio qui o a Beirut. Ci risponde "In Afghanistan. Ho visto morire il mio migliore amico". Argh!

[...]

Era passata un'oretta da Brest, e stavamo tornando a Zagabria per una strada costeggiata dai campi, quando vediamo un mig bombardare in lontananza. Ci fermiamo dietro l'auto davanti a noi, da cui scende il belga con la telecamera, che si inginocchia dietro la portiera aperta.

Il belga, che per noi era il simbolo vivente dell'invulnerabilità, aveva paura. Certo, non sprecano una bomba per te, ma una raffica te la tirano volentieri.

Intanto il mig è passato, no, adesso torna, ma contro il sole non lo vedi. Lui invece ti vede benissimo, due auto ferme sulla strada costeggiata dal fossato (neanche tagliare per i campi) con cinque imbecilli che giocano a nascondino.

Ed è stato in quell'istante che ho avuto la piena consapevolezza che tutti i nostri "PRESS" incollati sulla macchina, in quel momento in serbo croato significavano: "sparate qui, prego".


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